RECENT ART EVENTS

The Stuff of Dreams



PERSONALE

a cura di Giuseppe Ussani d'Escobar

Hyunnart Studio - Roma

John Cabot University



A talk by Jonathan Hynd

Università di Roma TRE



A Permanent Collection of Contemporary Art

Giuseppe Ussani d’Escobar

“We are such stuff as Dreams are made on” (from The Tempest, William Shakespeare)


Nel titolo vi è già condensato il significato della mostra. Shakespeare ben lo sapeva: Noi siamo fatti della sostanza dei sogni, siamo come spiriti che attraversano il tempo e lo spazio e la vita è un grande sonno. Certamente, le radici del nostro Jonathan Hynd affondano il loro nutrimento nella grande poesia inglese non solo legata alla letteratura ma anche all’immagine che diviene Poésie di un paesaggio astratto. Quel gusto di origine celtica è individuabile nelle sue opere estremamente eleganti e lo si ritrova spesso nella pittura britannica. Torniamo ora al sogno di Shakespeare ma anche al sogno di Pedro Calderón de la Barca, uomini della civiltà trascorsa, di un tempo smarrito dalla nostra memoria, ma così attuali e profondi per comprendere l’arte di Jonathan: essi si muovevano tra la concretezza della realtà nella sua materialità più rude ed il sogno, avevano il potere sulla bacchetta magica del subconscio che gli consentiva di spostarsi velocemente nel regno della fantasia, la loro immaginazione viveva di magia nell’asprezza del quotidiano. Il nostro artista si muove con disinvoltura tra questi due universi della concretezza e della favola. Paul Klee, negli anni precedenti la Prima Guerra Mondiale, realizzava le sue opere con il canovaccio, argilla e gesso, simulando un muro e su questo tracciava dei segni sottili, quasi in punta di matita, che evocavano la grafia infantile ed il mondo dei sogni. L’occhio attento scorge nella natura e negli oggetti, che sembrano insignificanti ed insensibili ad ogni utilizzo artistico, una volontà creativa totalmente indipendente dalla volontà umana. Veniamo colpiti nella nostra componente irrazionale ogni giorno dalla fantasia e dal capriccio inventivo del mondo che ci circonda. Ed è allora che la nostra capacità di sognare, di assecondare il subconscio, ci trasforma in uomini liberi. Hynd si abbandona a questa energia indomita dell’arte che è dentro la materia la quale si trasforma e si sublima in un processo alchemico d’ infinite rinascite e metamorfosi; l’artista è la bacchetta magica nelle mani di un incantatore misterioso, diventa quasi un esecutore dell’esperienza incalzante ed espressiva della Natura. Shakespeare aveva compreso che il sogno è l’unica possibilità di salvezza e riscatto dell’uomo dalla violenza della vita. Ma resta affascinante ed attraente, seducente, lo sporcarsi con la vita di tutti i giorni, poiché la stessa vita è sogno, come ambiguamente suggerisce lo stesso Calderón. L’uomo viene dalla terra, dal fango ed è un mammifero carnivoro, la materialità nella sua componente più infima e bassa è necessaria alla vita, al proseguimento e riposizionamento continuo della specie. L’angelo è anche luciferino e nella caduta ritrova la sua identità più piena ed anche coinvolgente. Jonathan si sporca e si compromette con la materia, valorizza la volgarità e la semplicità dell’oggetto comune trasformandolo in Arte, ma è lo stesso oggetto che parla all’anima dell’artista e pretende il suo destino. Emerge dal silenzio l’objet trouvé di Henry Moore al quale, un ciottolo trovato casualmente sulla riva del mare, ispirava le sue curvilinee maternità, dove interno ed esterno della scultura interagivano e scivolavano l’uno nell’altro, così l’inconscio si apre alla consapevolezza dell’atto creativo. Joseph Beuys con la sua installazione “Das Ende des 20 Jahrhunderts” gioca con l’idea dell’objet trouvé e del ready-made ed è concettuale in quanto conscio di non aver fatto gli oggetti ma di essere solamente responsabile della loro disposizione nello spazio. Tutti siamo chiamati ad essere co-creatori e co-responsabili dell’opera d’arte totale. Le scatole di vino di Hynd diventano pilastri che si ergono dalla terra, sembrano trarre energia dalla dimensione ctonia, per collegarsi nella tensione verticale al cielo; esse vivono di un equilibrio precario ma solido, possono essere spostate ed alterate e l’installazione assumerà un altro profilo, un’altra identità. Tutto nell’universo di Jonathan è solido e nel contempo “Fragile” poiché siamo mutabili come la Natura e siamo della sostanza dei sogni, non saremo mai uguali a noi stessi e l’attimo successivo è un tradimento del precedente. La scatola di cartone aperta e sconsacrata da Hynd rivela la sua autentica natura, generalmente nascosta agli occhi, nella vivisezione del segno e della forma, ed ha un tatuaggio inciso nella pelle, o piuttosto una strana voglia: “Fragile”. Tutto riconduce al Panta Rei ed all’arte come imitazione della vita proveniente dall’antica saggezza greca che aveva esplorato la Natura e l’abisso dell’inconscio.


IL RICHIAMO DELLA PITTURA

Intervento di Jonathan Hynd ad un seminario presso la John Cabot University (Roma 23-03-2017)


Dipingo, perché per una ragione o un’altra mi sento realizzato nel farlo. Ho studiato Architettura prima e Belle Arti dopo a Londra e sono arrivato a Roma trent'anni fa. La maggior parte del tempo che trascorro nel mio studio lo occupo nello sperimentare i materiali. Quando lavoro sono totalmente assorbito da quello che faccio, e non mi fermo per vedere cosa sto facendo. Continuo a lavorare per un periodo di tempo, finché alzo lo sguardo per vedere il lavoro realizzato ed è come se mi risvegliassi. In questo modo costruisco strati di eventi, se non vere e proprie avventure. Questa è la base dei miei quadri e della mia esperienza. Il Goldsmiths College era in quel periodo fortemente orientato verso l'arte concettuale, ma questo non era il modo in cui mi piaceva affrontare le cose. Il vocabolario così viene definita l'arte concettuale: un'arte in cui l'idea presentata dall'artista è considerata più importante del prodotto finito. No, non mi piace questo modo di fare arte.
E' basato troppo sul concetto e non sulla realizzazione del lavoro, di conseguenza realizzare un’opera diventa molto meno interessante. Probabilmente se non si hanno le competenze necessarie per fare il lavoro, alla fine si chiede a un tecnico di farlo al posto nostro. Questo porta con se’ un intero dibattito su quello che è un artista, su come oggi viene praticata l'arte, e come tutti e tutte le cose vengono utilizzati per questo fine. Ma questa sera non parlerò di questo. Diciamo che preferisco fare tutto io stesso. Il risultato finale è importante, ma la vera questione è la partecipazione. Basti pensare a tutte le sorprese che si perderebbero mentre si lavora il pezzo. Chissà, il lavoro avrebbe potuto anche cambiare direzione. Queste sorprese possono assumere la forma di "sviste" di un tipo o di un altro, di "errori", di "interruzioni", di "reazioni chimiche", di "intervalli" e di qualsiasi altro "avvenimento non pianificato né previsto" che è avvenuto inconsciamente ma che mi ha coinvolto fino alla "liberazione" finale quando il dipinto inizia a parlare da solo e mi dice come proseguire. Per me, la spontaneità è fondamentale. È reale. È del momento. È vissuta. Mi permette di essere libero in uno spazio dove i pensieri e le emozioni scorrono liberamente Uno spazio dove tutto è possibile, aperto alla sperimentazione. Ma affinché arrivi l'ispirazione occorre essere preparati ed è per questo che vado allo studio ogni giorno. Abbiamo anche bisogno di una certa fede in noi stessi, e questa viene dalla nostra esperienza. Questo è avvenuto dopo che ho finito gli studi. Ho viaggiato molto. Ho attraversato molte frontiere, ed ho visto tanta vita diversa. Alla fine ho deciso che avevo bisogno di una disciplina, e per questo ho scelto l'architettura. Ma la pittura alla fine ha scelto me. Diciamo che sono “caduto” tra le sue braccia. “Cadere” è un concetto importante e positivo nella civiltà occidentale. Quindi, piuttosto come Adamo ed Eva che cadono dalla grazia, innamorandomene sono caduto nella pittura. Dopo gli studi d’architettura presso l’Architectural Association di Londra, mi sono iscritto alla St. Martins School of Art per un anno prima di decidere che dovevo stare da solo nel mio studio. Ho lavorato lì per molti anni. Per i primi due anni ho fatto solo disegni, in bianco e nero su carta. Solo quello. Ho accompagnato questo periodo con strilli e grida, sussurri e risate. Ho cantato, ho pianto. Ho fatto battute. Ho messo tutto giù. Ad un certo punto mi sono reso conto che avevo bisogno di altre persone e nell'autunno del 1980 mi sono iscritto al Goldsmiths College per poi prendere il mio Master in Fine Art. (Goldsmiths fa parte dell'Università di Londra).
Il college non mi ha offerto un posto dove lavorare, ma un metodo: un giorno a mostrare il lavoro fatto ad uno dei dodici artisti maturi del corso, e un giorno a discutere la filosofia del diciannovesimo e del ventesimo secolo in un’aula all'università. Potevamo utilizzare tutti i servizi dell'edificio. E per commenti sul mio lavoro, potevo scegliere chiunque volevo dentro e fuori Londra. Ricordo di aver scelto Baselitz, era il mio eroe in quel periodo, ma in quel momento era in Germania e non è venuto! Quando ho finito a Goldsmiths, sono venuto in Italia, sulle orme di Tiziano e Tintoretto. Quindi, non ho una formazione vera e propria nel dipingere. La pittura si è impossessata di me indicandomi la direzione in cui dovevo andare, la sua disciplina mi ha obbligato ad agire in un certo modo. A questo proposito - avevo o ho una scelta? In realtà sento che non posso fare nient'altro. Nella pittura non puoi bleffare. Affinché il lavoro abbia valore, deve esserci onestà intellettuale. Un errore può sempre essere coperto, ma è sempre lì anche quando è cancellato. Fa parte del processo, e in una data successiva può rivivere e giocare una parte importante. Non puoi far finta che qualcosa non sia accaduta. Non è come se stai cercando di ritrarre qualcosa, la linea della bocca di una modella per esempio, e disegnarla correttamente. Non ci sono modelle, non c'è una bocca da ritrarre. Sono un pittore astratto. Nulla deve essere corretto, ma solo giusto. E comunque, nella mia linea di lavoro, nel momento in cui il segno somiglia a qualcosa, non mi serve a nulla. Se bleffo, sto solo perdendo il mio tempo. Rendendomi la vita difficile. Perfino negando me stesso. Quindi, se qualcuno dovesse chiedere quale motivazione mi ha spinto a volere dipingere, pensandoci potrei dire che dipingo per la mia conservazione, per rimanere integro. È questo quando si parla di destino? Destino è una parola grossa. Ricorro al vocabolario che lo definisce come "il potere nascosto che si crede controlli ciò che accadrà in futuro". Ho trascorso i primi trent'anni della mia vita in giro per il mondo, i miei secondi trent'anni in uno studio mettendo le cose che avevo imparato su tela. Da tutto questo, ho capito che il viaggio dentro se stessi sembra essere l'area più appagante da esplorare. Quando si pensi a ciò che siamo in grado di sognare e quanto poco siamo in grado di fare nella nostra vita reale ci accorgiamo che c'è un’incredibile discrepanza. L'ambiguità di un pezzo è importante per me. Mi piace esplorare. Mi piace attraversare confini, per vedere le cose da un altro lato, da altri angoli. La mia intenzione non è sfocare o mistificare, ma voglio avere di fronte a me qualcosa che trascenda quello che sembra. Voglio sperimentare la pittura non solo con gli occhi ma con tutti i sensi. Per me "i miei pezzi" hanno a che fare con l'immaginazione, non con la fantasia, consentendo agli spettatori la propria libertà d’interpretazione. Non amo gli artisti che cercano la perfezione. Tutto diventa troppo cinico e perde la sua asprezza. Diventa idealizzato e ha poca emozione. Dobbiamo ringraziare artisti come Masaccio e Giotto per averci riportati sulla buona strada, artisti che si occupano dell'ordinario, ma in una nuova luce, e che cercano di raggiungere e toccare ciò che è al di là della loro presa. "Se devi fare qualcosa, fallo al meglio delle tue capacità, altrimenti lascia perdere”.

FALLING INTO PAINTING

A talk by Jonathan Hynd about his personal motivations and beliefs in Painting.(Rome, March 2017)


I paint, because for some reason or other I feel fulfilled doing so. I studied Architecture and Fine Art in London, and arrived in Rome some thirty years ago. Most of my time in my studio in Monteverde is spent experimenting with materials. While I’m working, I get very absorbed, and don’t look up from the work to see what I’m doing. I just carry on over a period of time, until I am awakened by what I have done. In this way I build up layers of events, if not adventures This is the ground of the painting, my experience, my context. At Goldsmiths College I had a strong formal training in Conceptual Art, but it’s not the way I like to go about things.
The Dictionary says that Conceptual Art is an art in which the idea presented by the artist is considered more important than the finished product. No I don’t like that way of doing things. It’s too much about concept. After that, making it would be far less interesting. I probably wouldn’t have the required skills to make the work either, and end up asking a technician to do it for me. This brings in a whole discussion on what an artist is, the way Art is practiced today, and how everybody and everything is used for this end. I’m not going to go into all that this evening. Let’s just say I prefer to do everything myself. I understand that the end result is important, but the real point is the participation. Just think of all the surprises I’d miss while making the piece. Who knows, it might even change direction. These surprises may take the form of “slips” of one sort or another, “mistakes”, “interruptions”, “chemical reactions”, “time lapses”, and any other “unplanned or unexpected events” that happen unconsciously, but which keep me involved right up to the final “release” when the painting starts to talk by itself and tells me where to go next. For me, spontaneity is fundamental. It’s real. It’s of the moment. It’s lived. It allows me to be free in a space where thoughts and emotions flow uncontained, where everything is possible. However, for inspiration to happen, we need to be prepared, and that’s why, from force of habit, I go to the studio every day. We also need a certain faith in ourselves, and that comes from our own experience. That came after I left school. I did a lot of travelling, I crossed a lot of borders, and saw a lot of life. In the end I decided I needed a discipline. I chose Architecture. But Painting chose me. Let’s just say I fell into it. Falling, I’m told, is an important and positive concept in western civilization. So, rather like Adam and Eve falling from grace, or people falling in love, I fell into painting. After the Architectural Association, I joined a Foundation Course at St. Martins School of Art for a year before deciding I needed to be on my own in my studio flat in North London. I worked here for many years afterwards, But for the first two years I made only drawings, in black and white on paper. Just that. I accompanied this with yells, and shouts, whispers and laughter. I sang, I cried. I told jokes. I put it all down. At a certain point I realized I needed to be with other people, and I joined Goldsmiths College in the autumn of 1980 for my Masters in Fine Art. (Goldsmiths is part of London University).
It didn’t offer me a place to work, but a method; an afternoon in front of the work of one of the twelve mature artists on the course, and an afternoon discussing nineteenth and twentieth century philosophy in a room at the college. We could use all the facilities in the building. And for comments on my work, I could choose anyone I wanted in and around London. When I was finished at Goldsmiths. I came to Italy, hard on the heels of Tiziano and Tintoretto. So, I have no formal training in Painting. It just took over, pointing me in the direction I had to go, its discipline compelling me to act in a certain way. In this respect - did I, and do I - have a choice? If it feels right, I can’t do anything else. In painting you can’t bluff. For the work to have merit, there must be a process of intellectual honesty. A mistake can always be covered over, but it’s always there in spirit, even when its erased. It is part of the process, and at a later date may surface again and play an important part. You can’t pretend something hasn’t happened. It’s not as if you’re trying to portray something, the line of a models mouth for instance, and draw it correctly, there is no model, there is no mouth. I am an abstract painter. Nothing has to be correct, only right. And anyway, in my line of work, the moment the mark resembles something, it’s of no use to me. If I do bluff, I’m not only wasting my time, making life difficult for myself. I’m also negating myself. If someone were to ask me what were my motivations for painting, I could on reflection say that I paint for my own self-preservation, to keep myself intact. Is this what destiny is all about? It’s a big word. Again the dictionary, it defines it as “the hidden power believed to control what will happen in the future”. I have spent the first thirty years of my life out in the world, my second thirty years in a room putting stuff that I’ve learnt down on paper. From all this, I have understood that travel inside oneself seems to me to be the most rewarding area still to explore. When you think of what we are able to dream, and what little we are able to do in our waking lives there is a huge discrepancy. In retrospect, my motivations follow what I like. The ambiguity of a piece is important to me. I like to explore. I like to cross borders, to see things from the other side, from other angles. My intention is not to blur or to mystify, I want to have something in front of me that transcends what it seems. I want to experience painting not just with the eyes but with all the senses. For me “my pieces” are all about stirring the imagination, and allowing viewers their own freedom of interpretation. I don’t like artists who go in for perfection. It all gets too clinical, and loses its roughness. It becomes idealized and has little emotion. We must thank artists like Masaccio and Giotto for putting us back on the right track, They were painters who dealt with the ordinary, but in a new light, and who tried to reach out and touch what was beyond their grasp. “If you’re going to do something, do it to the best of your ability, if not, why bother?


Una Collezione Permanente di Arte Contemporanea
all’Università di Roma TRE (Roma 08-04-2016)


L’Università di Roma Tre ha costituito una Collezione Permanente d’Arte Contemporanea presso le diversi sedi dell’Ateneo, mediante la donazione di opere d’arte da parte dei più importanti artisti italiani e stranieri che operano nel nostro Paese. La Collezione è a cura del Professor Otello Lottini. Una nuova sezione della Collezione è stata inaugurata l'8 aprile del 2016 presso la Sala Conferenze del Dipartimento di Ingegneria, Via Vito Volterra, 62 (ex Vasca Navale). Jonathan Hynd, pittore inglese che da circa trent’anni vive e lavora a Roma, è stato invitato a far parte della collezione e ha donato otto opere di grandi dimensioni. Nel corso dell’inaugurazione è stato conferito a Jonathan Hynd e ad altri 3 artisti il titolo di "Accademico dell'Università Roma Tre". La collezione permanente è aperta al pubblico tutti i giorni, esclusa la domenica, dalle ore 8:30 alle ore 19:30, il sabato dalle 8:30 alle 13:00.

A permanent collection of Contemporary Art
at Roma TRE (Roma 08-04-2016)


The University of Roma TRE has established a Permanent Collection of Contemporary Art from donations by some of the most well known Italian and foreign Artists working in Italy today. The Collection is curated by Professor Otello Lottini. An inaugural ceremony for eight artists was held on 8 April 2016 in the Conference Centre at the Department of Engineering, Via Vito Volterra, 62 (ex Vasca Navale). Eight large paintings by the British Artist Jonathan Hynd form part of the Collection on permanent display. During the ceremony Hynd along with 3 other artists, was awarded the title of "Accademico dell'Università Roma Tre". The Collection is open to the public daily 08:30 - 19:30, Saturday 8:30 - 13:00. Closed on Sundays.

Al di là del mare - 2015, Olio, pigmenti, gesso su cartone, cm 182x197
Collezione Permanente di Arte Contemporanea, Università di Roma Tre.

PAINTINGS BY HYND IN THE COLLECTION




Sala Conferenze del Dipartimento di Ingegneria



Cerimonia di conferimento del titolo di "ACCADEMICO DELL'UNIVERSITA' ROMA TRE"
Cerimonia d'inaugurazione della Sezione di Ingegneria dell
a "Collezione d'Arte Contemporanea" dell'Universita Roma Tre




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